Rocky, genesi di un mito senza tempo
È ancora la boxe a farla da padrona, quando si parla di cinema e letteratura. Oggi vi racconto di com’è nato uno dei più longevi e fortunati personaggi cinematografici di sempre. Un autentico mito, protagonista di una saga che non ha certo bisogno di presentazioni. L’articolo originale, come di consueto, lo trovate sul mio blog Il Cinenauta. Signore e signori, per la rubrica NON SOLO BOTTE, parliamo di Rocky Balboa! Buona lettura!
È una sera di marzo del 1975 quando, per le strade di New York, un ragazzotto di 29 anni passeggia solitario, rimuginando sconsolato su come la vita possa colpire duro quando le cose non girano come dovrebbero. È un giovane di origini italoamericane ed ha studiato per ben due anni alla facoltà di Arte Drammatica dell’Università di Miami. La fortuna, però, non pare sorridergli: vorrebbe sfondare nel mondo del cinema ma i soldi sono pochini e allora ha trovato un impego come maschera al Baronet Theatre di New York, dove può “studiare” di straforo le tecniche dei vari registi e sceneggiatori dei film proiettati in quella sala. I nonni sono emigrati dalla Puglia molti anni prima della sua nascita e, proprio dal nonno, quel ragazzo ha preso il nome: Silvestro, che negli USA diventa irrimediabilmente Sylvester. Il cognome, è Stallone.
Decide di entrare in un cinema di quartiere, non per assistere all’ennesima visione di un film, ma perché è in programma la diretta dell’incontro di pugilato tra il supercampione dei pesi massimi Muhammad Alì e l’allora semisconosciuto Chuck Wepner. Il match è un’idea del vulcanico manager di Alì, Don King, per perseguire il sogno della “grande speranza bianca”. A sorpresa e contro ogni pronostico, Wepner resiste per ben quindici round all’assalto di Alì, incassando stoicamente i colpi del campione, prima che l’arbitro interrompa l’incontro a pochi secondi dal gong.
Nei giorni seguenti Stallone non fa altro che pensare a quelle immagini e una sera si siede al tavolo, prende dei fogli che teneva in casa e inizia a scrivere. È una storia che parla di resurrezione, di forza di volontà e della capacità di rialzarsi, quando la vita ti fa finire al tappeto. Le vicende si svolgono nei degradati sobborghi di Filadelfia, dove il protagonista è Rocky Balboa: un pugile italoamericano di scarso livello che, tra un incontro e l’altro, tira a campare lavorando come esattore per un piccolo boss di quartiere. Rocky è innamorato di Adriana Pennino, timida e introversa commessa di un negozio di animali nonché sorella del suo migliore amico Paulie.
Le vicende sentimentali ed esistenziali del pugile si intrecciano, quindi, con l’arrivo in città del campione del mondo dei pesi massimi, Apollo Creed, che, visto il forfait del suo rivale nel prossimo incontro, decide di cavalcare la favola del “sogno americano” e mettere in palio la cintura contro un pugile sconosciuto. Un anonimo boxeur italoamericano e dall’appellativo altisonante (lo Stallone Italiano) come Rocky, è perfetto per i piani di Apollo. Il treno è uno di quelli che passa una sola volta nella vita e Rocky, inizialmente titubante, accetta di coglierla.
All’alba del quarto giorno una prima stesura dello script di Rocky è pronta. Stallone riesce a sottoporre il copione ai produttori della United Artists Irwin Winkler e Robert Chartoff e, nel contempo, a convincerli ad affidargli la parte del protagonista. Impresa quanto mai ardua visto che, nel ruolo di Balboa, i produttori avrebbero preferito attori del calibro di Burt Reynolds e James Caan ad uno sconosciuto Sylvester Stallone. L’italoamericano, però, è irremovibile: suo il soggetto, suo il personaggio.
Le riprese iniziano il 5 settembre 1975 sotto la guida di John G. Avildsen, ma se il buon giorno si vede dal mattino, appare chiaro fin da subito che, per portarle a termine, si dovrà davvero “andare alla distanza”. La produzione, infatti, ha messo a disposizione di Stallone un budget “irrisorio” e la scelta di ridurre le spese al minimo, è quanto mai obbligata.
Stallone non ha mai messo piede su un ring e per realizzare le scene di combattimento non si avvale della collaborazione di appositi preparatori, ma pensa bene di arrangiarsi in autonomia, facendo affidamento sugli insegnamenti di balletto trasmessigli dalla madre coreografa. Per la colonna sonora si pensa a uno sconosciuto Bill Conti che, in appena una settimana, si renderà artefice di uno di quei temi che rimangono nell’Olimpo del cinema e che dopo miriadi di ascolti, fanno ancora venire la pelle d’oca.
Il film è costellato di scene improvvisate: da quella del manifesto coi pantaloncini dai colori invertiti agli allenamenti nella cella frigorifera, dove Rocky frolla i quarti di bue a suon di ganci e diretti (metodo realmente utilizzato da Joe Frazier che, peraltro, troviamo in un piccolo cameo prima dell’incontro finale), fino a quella con Adriana sulla pista di pattinaggio.
Nella celebre scena della corsa lungo la scalinata del Museum of Arts di Filadelfia, inoltre, la pellicola introduce un innovativo supporto meccanico che consentirà di effettuare delle riprese altresì impensabili con le tecniche dell’epoca e che prenderà poi il nome di steadycam.
A far da cornice al vero e proprio capolavoro produttivo messo in piedi da Stallone, si colloca un cast di prim’ordine: ad interpretare Adriana, infatti, c’è quella Talia Shire sorella di Francis Ford Coppola e futura Connie Corleone ne il Padrino. Burt Young è Paulie, il personaggio più longevo dell’intera saga (assieme a Rocky ovviamente), mentre il ruolo dell’allenatore di Rocky, Mickey, viene affidato a Burges Meredith.
Last but not least: l’ex linebacker degli Oakland Riders, Carl Weathers, che, tanto simile a Muhammad Alì per temperamento e carattere, diventa un perfetto Apollo Creed.
Il risultato è un capolavoro di una tale potenza da dare vita ad un mito che mantiene inalterato il suo fascino dopo oltre quarant’anni e che spinge lo spettatore a perdonare al protagonista anche la sconfitta. Perché è bene ricordarlo: a vincere l’incontro, anche se ai punti, sarà Apollo e non Rocky che, però, troverà la sua vittoria nell’abbraccio di Adriana.
Il film esce nelle sale il 3 dicembre del 1976 ed è subito un successo e manifesto della “Nuova Hollywood”: al boxoffice incassa 117 milioni di dollari mentre nel marzo del 1977 ottiene ben dieci nomination agli Oscar, vincendone tre: Miglior film, Miglior regia e Miglior montaggio, surclassando veri e propri pezzi da novanta come Taxi Driver e Tutti gli uomini del presidente.
L’iconicità del film sta proprio nel fatto che quella di Rocky è una figura indissolubilmente legata a quella di Stallone. La storia di sceneggiatore e protagonista si ritrovano e si fondono diventando un tutt’uno. Perché proprio come Rocky, Stallone al tappeto ci è andato spesso e tante volte si è rialzato. E quella famosa voglia di rivalsa è sotto gli occhi di tutti: a Rocky non interessa la cintura. Lui non punta a diventare il campione del mondo e non si preoccupa di quello che gli altri possano pensare di lui. Tutto quello che vuole, non è vincere ma dimostrare a se stesso di essere più che un semplice “bullo di quartiere”. Ed emblematica è la scena del celebre monologo che, girato in un’unica ripresa, rende evidente l’essenza e l’abilità di Sylvester Stallone.
“Stavo pensando… In fondo chi se ne frega se perdo quest’incontro. Non mi frega niente nemmeno se mi spacca la testa. Perché l’unica cosa che voglio è resistere… Nessuno è mai riuscito a resistere con Creed. Se io riesco a reggere la distanza… E se quando suona l’ultimo gong io sono ancora in piedi… Io saprò, per la prima volta in vita mia, che non sono solo un bullo di periferia”.